l’obbligo del gestore di custodire i veicoli

Cassazione civile, Sez. Unite, n. 14319 del 28 giugno 2011:

l’istituzione da parte dei comuni, previa deliberazione della Giunta, di aree di sosta a pagamento ai sensi dell’art. 7, primo comma, lettera f), d. lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (codice della strada), non comporta l’assunzione dell’obbligo del gestore di custodire i veicoli su di esse parcheggiati se l’avviso parcheggio incustodito è esposto in modo adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto (artt. 1326, primo comma, e 1327 cod. civ.) perché l’esclusione della custodia attiene all’ oggetto dell’ offerta al pubblico (art. 1336 cod. civ.), e l’ univoca qualificazione contrattuale del servizio, reso per finalità di pubblico interesse, normativamente disciplinate, non consente il ricorso al sussidiario criterio della buona fede, ovvero al principio della tutela dell’affidamento incolpevole sulle modalità di offerta del servizio (quali ad esempio l’adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso ed uscita, dispositivi o personale di controllo), per costituire l’obbligo della custodia, potendo queste costituire organizzazione della sosta.

post 2011

ordinanza cautelare del GIP mancante di motivazione

non è nulla l’ordinanza cautelare del GIP mancante di motivazione, questo afferma Cass. pen., sez. III, 15 aprile 2011, n. 15416, ad avviso della quale:

l’effetto interamente devolutivo che caratterizza il riesame delle ordinanze applicative di misure cautelari, deve ritenersi che il Tribunale del Riesame “possa sanare, con la propria motivazione, le carenze argomentative di detto provvedimento, pur quando esse siano tali da dar luogo alle nullità, rilevabili d’ufficio, previste dall’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e c bis)”.

Del resto, ciò lo si desume con chiarezza anche dalla norma (art. 309 c.p.p., comma 9) che facoltizza il Tribunale a riformare, annullare o confermare “per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso” oltre che dalla costante interpretazione data da questa S.C. (v. anche sez. n. 4.12.06, Biasi, Rv. 235622) che, ricalcando analoghe enunciazioni, asserisce testualmente che “deve ritenersi che il Tribunale del Riesame possa sopperire, con la propria motivazione, non solo all’insufficienza o contraddittorietà della motivazione del provvedimento genetico della misura, ma anche alla sua totale mancanza o mera apparenza, esplicitando, per la prima volte, le ragioni giustificative della misura cautelare adottata”

post 2011

morte del domiciliatario del ricorrente

nel giudizio di Cassazione, la morte del domiciliatario del ricorrente determina, ai sensi dell’art. 141, quarto comma, c.p.c., l’inefficacia dell’elezione di domicilio, con la conseguenza che l’avviso d’udienza va notificato presso la cancelleria della Corte di casssazione ai sensi del secondo comma dell’art. 366 c.p.c., essendo il diritto del difensore non domiciliato in Roma, di essere informato della data fissata per la discussione del ricorso, adeguatamente salvaguardato – nel contemperamento, operato dal legislatore, dei diversi interessi delle parti e delle esigenze dell’ufficio – dalla possibilità dello stesso difensore di chiedere che l’avviso gli sia inviato in copia mediante lettera raccomandata, a norma dell’art. 135 disp. att. c.p.c.
Cass.civ., sez. Un., 24 giugno 2011, n. 13908

post 2011

elemento psicologico della diffamazione

in tema di delitti contro l’onore, l’elemento psicologico della diffamazione consiste non solo nella consapevolezza di pronunziare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione ma anche nella volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone ma l’imputato quando aveva parlato del comportamento sessuale disinvolto nel quale si era, a suo dire, imbattuto nelle due sorelle, non aveva menzionato anche il relativo cognome e tantomeno precisato la località del cantiere, da ciò deriva la non identificabilità delle p.p.oo. e, quindi, l’insussistenza del reato; cfr. Cass. pen. n. 25458/2011

post 2011

prova della paternità naturale

L’art. 269 c.c., comma 4 – secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra questa ed il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale – non esclude che tali circostanze, nel concorso di altri elementi, anche presuntivi, possano essere utilizzate a sostegno del proprio convincimento dal giudice del merito. (Cass. 22490/06 2640/03 14910/00).

La sentenza impugnata nell’esaminare con attenzione la decisione del giudice romeno ha rilevato che essa era fondata non solo sulle dichiarazioni della O., ma su tutta una ulteriore serie di elementi indiziari costituiti: dalla deposizione della teste T., che ha riferito delle frequentazioni del ricorrente con la O. e la di lei famiglia e del fatto che questi si era detto contento dell’arrivo del bambino; dalla mancata presentazione all’interrogatorio da parte del V.; dal fatto che dalle schede dell’albergo XXX era risultato che le parti avevano soggiornato nella stanza 123 poco più di nove mesi prima della nascita della piccola A.; dal fatto che l’ambasciata italiana in Bucarest aveva certificato, in data 1234, che le parti avevano eseguito pubblicazioni di matrimonio nel Comune di YYY.

L’accertamento della paternità, così come risulta verificato dalla sentenza della Corte d’appello, che oltretutto non risulta censurata in ordine alle sopra citate argomentazioni, è dunque avvenuto nel pieno rispetto dei principi stabiliti dalla legge italiana, così come gli stessi risultano interpretati dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema, onde certamente nessuna violazione dell’ordine pubblico interno si è verificata.

Cass. civ., sez. I, 9 giugno 2011, n. 12646.

post 2011

conflitto di attribuzione

La Corte di cassazione, terza sezione civile, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata dall’Assemblea il 10 febbraio 2005 (doc. IV-quater, n. 48), con la quale è stato affermato che le dichiarazioni rese dal deputato Vittorio Sgarbi nel corso di una trasmissione televisiva andata in onda il 27 marzo 1998 e coinvolgenti, fra gli altri, il dott. Gherardo Colombo, magistrato, all’epoca dei fatti, in servizio presso la Procura della Repubblica di Milano, concernevano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e dovevano, pertanto, ritenersi insindacabili, a norma dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Dopo aver rievocato l’iter del procedimento e le ragioni della domanda risarcitoria formulata dal dott. Colombo nei confronti dell’allora deputato Sgarbi, la Corte ricorrente ha richiamato la ormai consolidata giurisprudenza costituzionale formatasi sul tema della garanzia costituzionale prevista per le dichiarazioni rese extra moenia dei parlamentari, sottolineando, in particolare, come il fulcro di tale garanzia debba essere ravvisato nella necessaria individuazione di un nesso funzionale tra le opinioni manifestate e l’attività parlamentare, secondo quelle caratteristiche di sostanziale corrispondenza di contenuti, tra opinioni espresse e attività parlamentare tipica, più volte poste in luce nelle pronunce di questa Corte. In tale cornice, dunque, la Camera dei deputati avrebbe – a parere della Corte ricorrente – omesso di scrutinare correttamente le opinioni manifestate dal deputato Sgarbi, stante il contesto privatistico in cui le stesse sono state espresse, e l’assenza di collegamento tra il relativo contenuto ed atti parlamentari tipici riferibili allo stesso deputato… \"\"

…Nel merito, il ricorso è fondato, in quanto, a sostegno del nesso funzionale ravvisato nella deliberazione oggetto del conflitto, non è stato dedotto alcun atto parlamentare riferibile personalmente alla attività svolta dall’on. Sgarbi quale deputato, posto che gli atti evocati a tal fine dalla Camera resistente si riferiscono ad altri parlamentari. Nell’esigere questo specifico nesso la giurisprudenza di questa Corte è assolutamente costante (ex plurimis, sentenza n. 304 del 2007). E’ la stessa Camera, d’altra parte, a sollecitare una revisione della giurisprudenza costituzionale, notoriamente consolidata nell’escludere la possibilità di utilizzare, come atti di “copertura” ai fini della insindacabilità, quelli posti in essere da altri componenti della Camera di appartenenza, anche se dello stesso gruppo parlamentare. Auspicio che, peraltro, non può trovare accoglimento, dovendosi qui ribadire che la verifica del nesso funzionale tra le dichiarazioni esterne e quelle rese nell’esercizio delle funzioni parlamentari deve essere effettuata con riferimento alla stessa persona, non potendosi configurare «una sorta di insindacabilità di gruppo» assistita dalla garanzia costituzionale prevista dall’art. 68, primo comma, della Costituzione (tra le tante, sentenza n. 28 del 2008). Il nesso biunivoco che deve correlare l’attività divulgativa all’esercizio delle funzioni parlamentari, non può, infatti, che presupporre l’identità soggettiva in capo al titolare del relativo munus, altrimenti facendo assumere, ad una prerogativa riconosciuta in vista dello svolgimento di una funzione, i connotati tipici di una non consentita immunità soggettiva.

Deve conclusivamente ritenersi che non spettava alla Camera dei deputati affermare che i fatti per i quali è in corso il giudizio civile promosso dal dott. Gherardo Colombo nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi pendente davanti alla Corte di cassazione, terza sezione civile, di cui al ricorso in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Corte cost., 24 giugno 2011, n. 194

post 2011

elementi della calunnia

Per quanto concerne, invero, il delitto di calunnia, deve osservarsi, in via generale, che, perchè si realizzi il dolo di tale reato, è necessario che chi formula la falsa accusa abbia certezza dell’innocenza dell’incolpato. L’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude, quindi, l’elemento soggettivo.
Si è tuttavia precisato (v., per tutte, Sez. 6, 14 marzo 1996, Gardi) che tale esclusione opera solo se il convincimento dell’accusatore si basi su elementi seri e concreti e non su semplici supposizioni. A quest’ultimo riguardo, occorrono però alcuni chiarimenti. Se, invero, l’originaria incertezza sulla colpevolezza dell’accusato riguarda fatti storici concreti, suscettibili di verifica o comunque di corretta rappresentazione nella denuncia, la omissione di tale verifica o rappresentazione determina effettivamente la dolosità  di un’accusa espressa in termini perentori. L’ingiustificata attribuzione di un fatto dubbio come fatto vero presuppone infatti la certezza della sua non attribuibilità  sic et simpliciter all’incolpato. Quando invece l’incertezza riguarda profili soggettivi della condotta posta realmente in essere dall’accusato, da un lato la verifica della loro veridicità  si presenta come assai problematica e, dall’altro, la rappresentazione della incertezza dei medesimi è generalmente insita nella loro natura di elementi frutto di valutazione e non di cognizione. In tal caso, dunque, l’attribuzione dell’illiceità  è dominata da una pregnante inferenza soggettiva, che, nella misura in cui non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata, sarà  inidonea a integrare il dolo tipico della calunnia.

Cass. pen., sez. VI, 9 giugno 2011, n. 23118.

post 2011

r.r. raccomandata

un telegramma (cosi come una lettera raccomandata), anche in mancanza di ricevimento, attestata dall’ufficio postale attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione anzidetta e dell’ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico, di arrivo al destinatario e di conoscenza dell’atto (v. Cass. 3^, 4.6.2007 n. 12954; 2^, 13.3.2006 n. 8649; Lav. 16.1.2006 n. 758; 3^, 24.11.2004 n. 22133; 3^, 27.2.01 n. 10284, conf. N. 3908/92, 1265/99, 4140/99, 13959/00). Siffatta produzione, ovviamente, non da luogo ad una presunzione iuris et de iure di avvenuto ricevimento dell’atto, essendo sempre possibile la specifica confutazione della circostanza e la prova contraria. Nel caso di specie tale confutazione, per quanto ritenuta “inequivoca” dal giudice di merito, non risulta essere idonea, non essendo stati addotti elementi di prova al riguardo (quali la circostanza che il plico non contenga alcuna lettera o ne contenga una di contenuto diverso: Cass. n. 22133/04; assenza del destinatario dalla residenza o domicilio indicati nel telegramma all’epoca della convocazione: 8649/06) o sollecitati accertamenti (presso gli uffici dell’amministrazione postale) atti a verificare l’assunta mancata ricezione,

così Cass. civ., sez. III, 20 giugno 2011, n. 13488.

il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari è affetto da nullità

l’unitarietà dell’accertamento che è (o deve essere) alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali -, sicchè tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso processo e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi; siffatta controversia, infatti, non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, cioè gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione, con conseguente configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario: pertanto, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone al giudice adito in primo grado l’integrazione del contraddittorio, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29), ed il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari è affetto da nullità per violazione del principio del contraddittorio di cui all’art. 101 c.p.c. e art. 111 Cost., comma 2, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio (Cass., Sez. un., n. 14815 del 2008).

Peraltro, ad identica conclusione è già giunta questa Corte in relazione al ricorso proposto dalla società sopra indicata (Cass. n. 18593 del 2010). In conclusione, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio.”; che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti; che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato e rilevata la nullità dell’intero giudizio, la sentenza impugnata deve essere cassata (così restando travolta anche quella di primo grado) e la causa rinviata alla Commissione tributaria provinciale di Avellino…

Cass. civ., sez. V, Ordinanza del 19 maggio 2011, n. 11092

post 2011

’obbligo di traduzione del mandato di arresto Europeo

ad avviso di Cass., sez. VI, 7 giugno 2011, n. 22768:

la statuizione contenuta nella decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, circa l’obbligo di traduzione del mandato di arresto Europeo nella lingua ufficiale dello Stato membro di esecuzione – al pari della previgente disposizione di cui all’art. 23 della Convenzione Europea di estradizione – pone a carico dello Stato istante un onere allo scopo di assicurare la funzionalità ed il celere svolgimento della procedura di consegna, ma non determina di per sè la invalidità del mandato di arresto Europeo e della relativa procedura.
Sul piano interno, la L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 6, comma 7, nel fare propria la citata disposizione della decisione quadro, non prevede infatti specifiche sanzioni nel caso in cui il mandato sia pervenuto non tradotto nella lingua italiana.
Pertanto, se il mancato assolvimento di tale onere giustifica la richiesta di adempimento da parte dello Stato di emissione e può determinare – in caso di totale e persistente assenza della collaborazione sollecitata – l’emissione di una pronuncia che dichiara l’inesistenza delle condizioni per procedere alla consegna, dati i brevi termini d’esecuzione del mandato d’arresto Europeo, ciò non significa che l’autorità giudiziaria italiana sia priva del potere di ricorrere all’ausilio di un interprete (nelle forme previste dal nostro ordinamento) per colmare eventuali omissioni o lacune della traduzione o per ottenere integrazioni e chiarimenti ritenuti utili ai fini della decisione da adottare.
Di talchè il motivato e corretto esercizio di tale potere da parte del giudice non determina la dedotta violazione della legge processuale. Nè a maggior ragione può ritenersi viziata la motivazione della sentenza impugnata che si è conformata al predetto principio.

post 2011

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