SKY ECC: la prova digitale che mette in crisi il giusto processo

SKY ECC: la prova digitale che mette in crisi il giusto processo

di Danilo IacobacciAvvocato Patrocinante in Cassazione e Giurisdizioni Superiori, Dottore di Ricerca in Politiche penali dell’U.E., Vice Procuratore Onorario

PREMESSA

Negli ultimi anni, le indagini penali si sono aperte a una nuova frontiera: quella della tecnologia crittografata.

Con l’irruzione nel sistema SKY ECC – una piattaforma di messaggistica cifrata utilizzata da migliaia di utenti in tutto il mondo – le autorità europee hanno dato il via a una raccolta massiva di dati e comunicazioni, poi trasmessi anche all’Italia.

Tuttavia, dietro l’efficienza investigativa e le operazioni spettacolari, si cela un rischio profondo e poco discusso: quello di processi fondati su prove acquisite all’estero, inaccessibili alla difesa, e mai sottoposte al vaglio di un giudice italiano.

È davvero compatibile tutto ciò con il giusto processo, con la Costituzione e con la CEDU?

 

  1. ACCESSO LIMITATO AGLI ELEMENTI DI PROVA: VIOLAZIONE SISTEMICA DEL DIRITTO DI DIFESA

I dati raccolti tramite SKY ECC consistono in milioni di messaggi criptati, decrittati all’estero (Francia, Paesi Bassi, Belgio) e trasmessi in Italia attraverso Ordini Europei di Indagine (OEI). Tuttavia, nella prassi, la difesa italiana non ha accesso: ai log originali dei server; agli algoritmi di cifratura e decifratura; ai rapporti tecnici delle operazioni di decrittazione; alla catena di custodia completa dei dati digitali; agli eventuali dati esclusi per irreperibilità, irrilevanza o per scelta delle autorità straniere.

Questo genera un doppio strato di opacità: sia per la non conoscibilità del contenuto tecnico, sia per l’impossibilità di verificare manipolazioni, omissioni o errori nell’estrazione, trasmissione e lettura del dato.

L’art. 24 Cost. garantisce il diritto inviolabile alla difesa “in ogni stato e grado del procedimento”, ed il diritto alla prova e al contraddittorio tecnico si concretizza, tra le altre cose, nell’accesso effettivo e paritario agli elementi di prova.

Quando un imputato non può verificare l’autenticità dei messaggi che lo accusano, esaminare i criteri di selezione delle conversazioni inviate dall’estero, riprodurre le condizioni di decodifica del dato originario, il diritto alla difesa è neutralizzato perchè non si può controesaminare una “scatola chiusa”.

Non si tratta di una limitazione processuale, ma di una violazione strutturale della parità delle armi, in quanto la pubblica accusa ha accesso a materiale che l’imputato non può né controllare né replicare.

L’art. 111 Cost. riprende la nozione di “giusto processo” introdotta dall’art. 6 della CEDU. Le violazioni rilevanti in questo contesto sono almeno tre:

  1. a) Art. 6 §1 CEDU – Equità del processo

La Corte EDU ha chiarito che l’equità complessiva del processo può risultare compromessa quando la difesa non può esaminare o contestare prove determinanti, specialmente in ambito penale. Il caso “Bykov c. Russia” (GC, 2009) ribadisce che l’impossibilità di accedere a prove cruciali, anche se per ragioni tecniche, è incompatibile con l’art. 6.

  1. b) Art. 6 §3 lett. b) CEDU – Tempo e mezzi adeguati per preparare la difesa

Quando una prova è tecnicamente inaccessibile, non spiegabile, non riproducibile e non contestabile, la difesa è privata dei “mezzi adeguati” per preparare la propria strategia. Ciò è avvenuto, ad esempio, nel caso “Ibrahim e altri c. Regno Unito” (2016), in cui la Corte ha dichiarato violato l’art. 6 per l’impossibilità di contestare l’uso di dichiarazioni coperte da segreto.

  1. c) Art. 6 §3 lett. d) CEDU – Esame dei testimoni a carico

Nel caso di SKY ECC, la fonte delle prove non è una persona fisica ma un algoritmo, un’operazione tecnica o una polizia straniera: la difesa non può mai esaminare la fonte dell’accusa, né sottoporre a controinterrogatorio i funzionari o i tecnici che hanno materialmente decifrato i dati.

Precedenti della Corte EDU che rafforzano la tesi sono: “Mirilashvili c. Russia” (2008), over la Corte ha stigmatizzato l’impossibilità di ottenere materiali rilevanti per la difesa; “Rowe e Davis c. Regno Unito” (2000) ove ha ritenuto violato l’art. 6 per la mancata disclosure alla difesa di materiali utilizzati dalla pubblica accusa; e  “Natunen c. Finlandia” (2009) ove ha considerato l’assenza di accesso a file digitali fondamentali come una compressione del diritto alla preparazione della difesa.

La tesi della Cassazione – secondo cui la provenienza da uno Stato membro e l’uso dell’OEI bastano a garantire l’affidabilità – sacrifica le garanzie difensive in nome dell’efficienza repressiva. Si istituzionalizza una prassi che rischia di portare a un sistema di giustizia automatizzata e fideistica verso le autorità estere ed ad una progressiva erosione della parità delle armi, con l’imputato degradato a oggetto passivo del processo.

La piena accessibilità e contestabilità del materiale probatorio sono presupposti irrinunciabili di ogni processo democratico.

L’accettazione di prove criptiche e tecnicamente irraggiungibili mina le fondamenta del giusto processo sancito sia dalla Costituzione italiana che dalla CEDU.

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Il Governo italiano durante Consiglio dei ministri del 21/10/2024 ha approvato il decreto legge su migranti e Paesi sicuri.

Il Governo italiano durante Consiglio dei ministri del 21/10/2024 ha approvato il decreto legge su migranti e Paesi sicuri.

Il 21 ottobre 2024, il Consiglio dei Ministri italiano ha approvato un nuovo decreto legge in materia di immigrazione, incentrato sui rimpatri e sulla designazione dei “Paesi sicuri”.

Questo provvedimento mira a rendere permanente e primaria la lista dei Paesi considerati sicuri per il rimpatrio, una lista che in passato veniva aggiornata annualmente tramite un decreto interministeriale.

L’obiettivo principale è agevolare il rimpatrio dei migranti irregolari e rafforzare il controllo sull’immigrazione, soprattutto dopo la recente sentenza del tribunale di Roma che ha messo in discussione l’efficacia del “piano Albania”, bloccando l’operazione che prevedeva il trasferimento di migranti in centri allestiti in quel Paese.

La normativa interviene per superare le difficoltà giuridiche sorte dopo la decisione del tribunale, che ha annullato il trattenimento di migranti trasferiti in Albania.

Questo decreto rappresenta una risposta diretta alle critiche mosse dalla magistratura italiana, che aveva sollevato dubbi di legittimità sul progetto.

Nonostante ciò, il governo Meloni ha dichiarato la sua intenzione di continuare a difendere i confini nazionali e di garantire che l’ingresso in Italia avvenga solo in maniera legale, ribadendo l’importanza del rispetto dell’accordo con l’Albania.

Inoltre, il decreto prevede che la lista dei Paesi sicuri diventi una norma di rango primario, rafforzando così l’autorità del governo nell’attuare rimpatri.

Questo provvedimento ha sollevato ulteriori tensioni tra governo e magistratura, con il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati che ha difeso l’indipendenza del potere giudiziario, affermando che non si tratta di un conflitto istituzionale, ma piuttosto di una differenza nell’interpretazione delle normative europee.

Questo decreto rappresenta una delle mosse chiave dell’esecutivo per affrontare l’immigrazione irregolare, in un contesto in cui le politiche migratorie rimangono al centro del dibattito politico.

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