SKY ECC: la prova digitale che mette in crisi il giusto processo

SKY ECC: la prova digitale che mette in crisi il giusto processo

di Danilo IacobacciAvvocato Patrocinante in Cassazione e Giurisdizioni Superiori, Dottore di Ricerca in Politiche penali dell’U.E., Vice Procuratore Onorario

PREMESSA

Negli ultimi anni, le indagini penali si sono aperte a una nuova frontiera: quella della tecnologia crittografata.

Con l’irruzione nel sistema SKY ECC – una piattaforma di messaggistica cifrata utilizzata da migliaia di utenti in tutto il mondo – le autorità europee hanno dato il via a una raccolta massiva di dati e comunicazioni, poi trasmessi anche all’Italia.

Tuttavia, dietro l’efficienza investigativa e le operazioni spettacolari, si cela un rischio profondo e poco discusso: quello di processi fondati su prove acquisite all’estero, inaccessibili alla difesa, e mai sottoposte al vaglio di un giudice italiano.

È davvero compatibile tutto ciò con il giusto processo, con la Costituzione e con la CEDU?

 

  1. ACCESSO LIMITATO AGLI ELEMENTI DI PROVA: VIOLAZIONE SISTEMICA DEL DIRITTO DI DIFESA

I dati raccolti tramite SKY ECC consistono in milioni di messaggi criptati, decrittati all’estero (Francia, Paesi Bassi, Belgio) e trasmessi in Italia attraverso Ordini Europei di Indagine (OEI). Tuttavia, nella prassi, la difesa italiana non ha accesso: ai log originali dei server; agli algoritmi di cifratura e decifratura; ai rapporti tecnici delle operazioni di decrittazione; alla catena di custodia completa dei dati digitali; agli eventuali dati esclusi per irreperibilità, irrilevanza o per scelta delle autorità straniere.

Questo genera un doppio strato di opacità: sia per la non conoscibilità del contenuto tecnico, sia per l’impossibilità di verificare manipolazioni, omissioni o errori nell’estrazione, trasmissione e lettura del dato.

L’art. 24 Cost. garantisce il diritto inviolabile alla difesa “in ogni stato e grado del procedimento”, ed il diritto alla prova e al contraddittorio tecnico si concretizza, tra le altre cose, nell’accesso effettivo e paritario agli elementi di prova.

Quando un imputato non può verificare l’autenticità dei messaggi che lo accusano, esaminare i criteri di selezione delle conversazioni inviate dall’estero, riprodurre le condizioni di decodifica del dato originario, il diritto alla difesa è neutralizzato perchè non si può controesaminare una “scatola chiusa”.

Non si tratta di una limitazione processuale, ma di una violazione strutturale della parità delle armi, in quanto la pubblica accusa ha accesso a materiale che l’imputato non può né controllare né replicare.

L’art. 111 Cost. riprende la nozione di “giusto processo” introdotta dall’art. 6 della CEDU. Le violazioni rilevanti in questo contesto sono almeno tre:

  1. a) Art. 6 §1 CEDU – Equità del processo

La Corte EDU ha chiarito che l’equità complessiva del processo può risultare compromessa quando la difesa non può esaminare o contestare prove determinanti, specialmente in ambito penale. Il caso “Bykov c. Russia” (GC, 2009) ribadisce che l’impossibilità di accedere a prove cruciali, anche se per ragioni tecniche, è incompatibile con l’art. 6.

  1. b) Art. 6 §3 lett. b) CEDU – Tempo e mezzi adeguati per preparare la difesa

Quando una prova è tecnicamente inaccessibile, non spiegabile, non riproducibile e non contestabile, la difesa è privata dei “mezzi adeguati” per preparare la propria strategia. Ciò è avvenuto, ad esempio, nel caso “Ibrahim e altri c. Regno Unito” (2016), in cui la Corte ha dichiarato violato l’art. 6 per l’impossibilità di contestare l’uso di dichiarazioni coperte da segreto.

  1. c) Art. 6 §3 lett. d) CEDU – Esame dei testimoni a carico

Nel caso di SKY ECC, la fonte delle prove non è una persona fisica ma un algoritmo, un’operazione tecnica o una polizia straniera: la difesa non può mai esaminare la fonte dell’accusa, né sottoporre a controinterrogatorio i funzionari o i tecnici che hanno materialmente decifrato i dati.

Precedenti della Corte EDU che rafforzano la tesi sono: “Mirilashvili c. Russia” (2008), over la Corte ha stigmatizzato l’impossibilità di ottenere materiali rilevanti per la difesa; “Rowe e Davis c. Regno Unito” (2000) ove ha ritenuto violato l’art. 6 per la mancata disclosure alla difesa di materiali utilizzati dalla pubblica accusa; e  “Natunen c. Finlandia” (2009) ove ha considerato l’assenza di accesso a file digitali fondamentali come una compressione del diritto alla preparazione della difesa.

La tesi della Cassazione – secondo cui la provenienza da uno Stato membro e l’uso dell’OEI bastano a garantire l’affidabilità – sacrifica le garanzie difensive in nome dell’efficienza repressiva. Si istituzionalizza una prassi che rischia di portare a un sistema di giustizia automatizzata e fideistica verso le autorità estere ed ad una progressiva erosione della parità delle armi, con l’imputato degradato a oggetto passivo del processo.

La piena accessibilità e contestabilità del materiale probatorio sono presupposti irrinunciabili di ogni processo democratico.

L’accettazione di prove criptiche e tecnicamente irraggiungibili mina le fondamenta del giusto processo sancito sia dalla Costituzione italiana che dalla CEDU.

  1. INVERSIONE DELL’ONERE DELLA PROVA: UNA VIOLAZIONE STRUTTURALE DEL PRINCIPIO DI PRESUNZIONE DI INNOCENZA

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 23755/2024) hanno affermato che le comunicazioni acquisite da autorità giudiziarie straniere tramite strumenti come l’Ordine Europeo di Indagine (OEI) godono di una “presunzione relativa di conformità” ai diritti fondamentali.

In assenza di elementi specifici di invalidità, i dati sono considerati valori probatori certi e utilizzabili senza ulteriore verifica.

Da ciò discende, per la difesa, un onere di prova fortemente aggravato: dimostrare che la prova digitale è viziata, incompleta, manipolata o inattendibile; in sostanza, è l’imputato – e non la pubblica accusa – a dover fornire la prova della non colpevolezza tecnica.

Palese la violazione dell’art. 6 §2 CEDU, norma cheafferma che “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”.

Questo principio implica non solo l’assenza di dichiarazioni pubbliche anticipatorie di colpevolezza, ma anche che spetti all’accusa: provare l’autenticità delle prove acquisite; dimostrare la correttezza del metodo investigativo; e garantire che ogni elemento probatorio sia sottoponibile a scrutinio difensivo.

Quando l’onere si sposta sull’imputato, siamo di fronte a una inversione inammissibile che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, è compatibile con la Convenzione solo se giustificata da “imperativi prevalenti” e comunque limitata e proporzionata (si veda: Salabiaku c. Francia, 1988; Telfner c. Austria, 2001).

Nel caso SKY ECC l’onere della prova è trasferito per intero sulla difesa, non vi è possibilità reale di accedere ai dati grezzi, e non vi è alcun meccanismo per controbilanciare questa sproporzione.

Il risultato è la violazione sostanziale dell’art. 6 §2 CEDU.

Secondo la Costituzione italiana, “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. L’inversione dell’onere della prova nella valutazione della legittimità delle comunicazioni raccolte tramite SKY ECC lede questo principio in radice, poiché impone alla parte debole del processo – la difesa – un compito tecnicamente impossibile (accedere a dati secretati), giuridicamente sbilanciato (confutare ciò che l’accusa dà per presunto), e processualmente privo di effettività (non esistono mezzi legali per costringere uno Stato estero a consegnare il materiale tecnico originale).

È il riflesso di un processo in cui l’efficienza investigativa è anteposta alla garanzia dei diritti fondamentali.

Violato è anche il secondo comma dell’art. 111 Cost. norma che sancisce che “il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità”.

L’imputato che riceve prove da remoto, provenienti da Stati esteri e non controllabili, non si trova in condizione di parità perché non può replicare tecnicamente, perché non può verificare la fonte e perché non può proporre prove contrarie realmente equivalenti.

L’onere probatorio diventa, di fatto, una finzione d’equilibrio che maschera uno sbilanciamento irreversibile.

La Corte EDU ha stabilito che ogni trasferimento dell’onere della prova deve essere giustificato da uno stretto nesso logico e oggettivo tra i fatti accertati e le conclusioni tratte. Nel caso Böhm, la Corte ha condannato la Germania per aver fatto gravare sull’imputato la prova di non aver violato una norma fiscale, in assenza di elementi probatori chiari da parte dell’accusa.

Nel contesto SKY ECC, il nesso logico tra i dati e la colpevolezza dell’imputato non è mai oggetto di verifica piena, ma viene presunto valido se la difesa non riesce a smentirlo. È il modello esattamente censurato dalla Corte EDU.

Le Sezioni Unite, nella loro volontà di valorizzare la cooperazione giudiziaria internazionale, hanno accettato una prassi che rende l’imputato ostaggio di un principio rovesciato: chi è accusato non può più contare sulla prova della propria innocenza, ma deve dimostrare la non autenticità della prova altrui.

Questa scelta non solo incrina il cuore del giusto processo, ma rischia di creare un precedente pericoloso, in cui qualsiasi prova informatica proveniente dall’estero diventa intoccabile.

Il diritto alla presunzione di innocenza è un principio cardine della civiltà giuridica europea, non negoziabile in nome della lotta al crimine.

  1. L’ASSENZA DI AUTORIZZAZIONE GIUDIZIARIA PREVENTIVA: UNA FRATTURA NEL SISTEMA DELLE GARANZIE

I dati raccolti da SKY ECC sono frutto di un’operazione investigativa di intelligence digitale condotta in modo autonomo da autorità giudiziarie e di polizia straniere (soprattutto francesi e olandesi), senza la partecipazione delle autorità italiane e senza autorizzazione di un giudice italiano.

In Italia, questi dati sono stati importati tramite Ordine Europeo di Indagine (OEI), emesso da pubblici ministeri, e non da giudici. Tali dati hanno assunto il ruolo di elemento probatorio principale in numerose indagini, spesso in sostituzione delle classiche intercettazioni preventive soggette ad autorizzazione giudiziale.

L’art. 15 Costituzione stabilisce che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge.

Nel caso SKY ECC:

  • non esiste alcun provvedimento del giudice italiano che autorizzi la captazione delle conversazioni;
  • non esiste motivazione individualizzata sul soggetto le cui comunicazioni sono intercettate;
  • l’acquisizione è stata di massa, indifferenziata e preventiva, eseguita da autorità straniere per finalità di contrasto al crimine organizzato.

Questa modalità collide frontalmente con l’art. 15 Cost., che:

  • richiede una forma legale (atto scritto);
  • richiede una motivazione specifica e individuale;
  • impone che tale limitazione sia disposta da un’autorità giudiziaria nazionale, e non delegata ad autorità estere.

L’effetto sistemico è la trasformazione del controllo giudiziale in una formalità eludibile, e la riduzione del diritto alla segretezza delle comunicazioni a un’eccezione indefinita.

L’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo stabilisce che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto se non in casi previsti dalla legge e se necessari in una società democratica.

La Corte EDU ha chiarito, in una consolidata giurisprudenza, che qualsiasi forma di sorveglianza statale deve: essere prevista da una legge accessibile e chiara; prevedere garanzie contro abusi; ed essere proporzionata allo scopo legittimo perseguito (Klass c. Germania, 1978; Libert c. Francia, 2018).

Nel caso delle comunicazioni SKY ECC, l’assenza di un controllo preventivo da parte di un’autorità giudiziaria italiana e di informazioni sull’identità dei soggetti intercettati ex ante, a fronte di un contesto normativo nazionale chiaro sull’utilizzo dei dati di intelligence estera, comporta una violazione del principio di legalità ed un deficit strutturale di proporzionalità e prevedibilità. Si configura dunque in Italia una violazione dell’art. 8 CEDU.

La Corte costituzionale italiana ha chiarito che le limitazioni ai diritti fondamentali – tra cui il diritto alla segretezza delle comunicazioni – devono essere previste da una legge che ne definisca chiaramente contenuti, limiti e forme di controllo (sent. n. 81/1993; n. 372/2006).

L’attuale disciplina del OEI, disciplinato dal d.lgs. 108/2017, non consente al PM italiano di importare dati sensibili senza previa convalida giudiziale, quando tali dati impattano su diritti costituzionali inviolabili.

L’equiparazione, operata dalle Sezioni Unite, tra OEI e provvedimento giudiziale italiano costituisce un’evidente forzatura giuridica, in quanto:

  • elide ogni valutazione giudiziale di merito sulla proporzionalità;
  • rende inutile il filtro del giudice per attività intrusive;
  • elimina le garanzie del procedimento autorizzativo nazionale previste per le intercettazioni.

L’accettazione indiscriminata delle prove acquisite tramite SKY ECC senza autorizzazione giudiziaria preventiva italiana configura una violazione dell’art. 15 Cost., in quanto elimina l’elemento centrale della tutela delle comunicazioni: l’autorizzazione del giudice; una violazione dell’art. 8 CEDU, per assenza di garanzie effettive e prevedibilità della limitazione; e una violazione del principio di legalità, in quanto si sostituisce la garanzia formale e sostanziale con un meccanismo automatico di recepimento.

Tutto ciò ha l’effetto di istituzionalizzare una giustizia di tipo extraterritoriale, nella quale i diritti fondamentali possono essere aggirati mediante il ricorso a piattaforme tecnologiche e a dati investigativi stranieri non sottoposti al controllo del giudice italiano.

  1. LA PRESUNZIONE DI CONFORMITÀ DELLE PROVE ESTERE: UNA FINZIONE GIURIDICA INCOMPATIBILE CON LA LEGALITÀ COSTITUZIONALE E CONVENZIONALE

Le Sezioni Unite hanno stabilito che i dati acquisiti da autorità giudiziarie straniere, quando trasmessi in Italia mediante Ordine Europeo di Indagine (OEI), devono presumersi legittimamente raccolti nel rispetto dei diritti fondamentali, salvo prova contraria da parte della difesa.

Tale presunzione relativa di conformità deresponsabilizza le autorità giudiziarie italiane dal controllo sostanziale sulla prova e delega l’intero scrutinio sulla difesa; vieppiù, istituisce un automatismo di fiducia tra Stati che neutralizza ogni forma di verifica effettiva della legalità dell’acquisizione.

L’art. 111, comma 2, Cost. stabilisce che “il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità”. Ma se l’accusa può fondare il processo su prove digitali estere non sindacabili, la difesa non ha accesso agli atti di formazione di quella prova (operazioni di decifrazione, selezione, conservazione), e l’onere di dimostrarne l’illegittimità ricade solo sull’imputato, il contraddittorio non è solo sbilanciato ma è annullato nella sostanza, sostituito da una finzione di legalità fondata su presunzioni favorevoli alla pubblica accusa.

La Corte costituzionale ha costantemente affermato che le regole del giusto processo, e in particolare la verifica critica delle prove, non possono essere eluse attraverso presunzioni non adeguatamente controbilanciate da strumenti effettivi di difesa (v. sentt. n. 24/2005; n. 113/2011).

Palese è la violazione degli articoli 6 §1 e §3 CEDU e dell’equo processo e del diritto a contestare la prova.

Infatti:

  • quanto a) Art. 6 §1 CEDU – Fair trial – la Corte EDU ha chiarito che ogni prova decisiva per la condanna dell’imputato deve poter essere contestata in modo effettivo, anche se acquisita all’estero. La mera provenienza da uno Stato membro non può fondare una presunzione assoluta di regolarità, pena la trasformazione del processo in un procedimento di mera ratifica. Nel caso Mirilashvili c. Russia (2008), la Corte ha stabilito che “il processo non è equo quando l’accusato non ha possibilità di contestare in modo effettivo l’autenticità di prove decisive raccolte all’estero”.
  • Quanto all’art. 6 §3 lett. b) e d) – Preparazione della difesa ed esame delle fonti – la presunzione di validità comporta che l’imputato non può: esaminare i tecnici che hanno operato sulla piattaforma SKY ECC; accedere al codice di decifrazione; ripercorrere la metodologia di raccolta e selezione delle chat; e verificare l’identità o la competenza dei soggetti coinvolti.

La Corte EDU, nel caso Natunen c. Finlandia (2009), ha censurato la mancanza di accesso agli atti tecnici dell’indagine, ritenendo violato l’art. 6.

In base al combinato disposto degli artt. 24, 111 Cost. e 6 CEDU, la legalità e controllabilità delle prove è condizione necessaria per la loro utilizzabilità. La presunzione di conformità impedisce il controllo sostanziale e deroga al principio di tipicità delle modalità di acquisizione della prova e  consente l’utilizzo di elementi probatori di provenienza incerta, in contrasto con le regole ordinarie del codice di procedura penale.

Questa deregolamentazione si pone fuori dalla riserva di legge prevista per le limitazioni ai diritti fondamentali (art. 13, 14, 15 e 111 Cost.) e viola il principio di legalità processuale, corollario della certezza del diritto e della difesa effettiva.

La Corte costituzionale  ha reiteratamente affermato che il principio di leale cooperazione europea non può mai tradursi in un’abdicazione delle funzioni garantistiche attribuite al giudice nazionale dalla Costituzione.

Affidarsi a una presunzione astratta di conformità delle prove estere significa abdicare al controllo di legalità costituzionale e trasformare il giudice italiano in un soggetto meramente esecutivo, svuotando il suo ruolo di garante dei diritti.

In definitiva, la presunzione di conformità delle prove estere:

  • trasforma la prova in una entità dogmatica;
  • mina la funzione di verifica del giudice italiano;
  • travolge il diritto al contraddittorio e alla difesa;
  • legalizza l’utilizzo di prove “invisibili” e insindacabili.

Una simile presunzione, seppur relativa in astratto, si traduce in una presunzione assoluta nella prassi, che scardina il principio del giusto processo e rende l’imputato vulnerabile a prove inaccessibili, in violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6 CEDU.

  1. IL RISCHIO DI VIOLAZIONI SISTEMICHE: QUANDO LA PRASSI MINA LE FONDAMENTA DELLO STATO DI DIRITTO

L’utilizzo massivo dei dati SKY ECC raccolti da autorità estere senza controllo preventivo del giudice italiano, e senza accessibilità tecnica per la difesa, rappresenta una deroga permanente ai principi fondamentali del giusto processo.

Tale deroga – pur presentata come eccezione funzionale alla cooperazione internazionale – si è istituzionalizzata attraverso una serie di decisioni che equiparano l’OEI a un provvedimento giudiziario interno; ma presuppongono l’affidabilità della prova straniera in modo aprioristico ed impongono alla difesa oneri probatori sproporzionati; così di fatto impediscono la contestazione effettiva delle fonti digitali.

Quando un simile impianto viene reiterato in centinaia di procedimenti (tra cui operazioni come Eureka, Platinum-DIA, CryptoPhone, ecc.), si configura un rischio strutturale e sistemico per la legalità processuale.

Ai sensi dell’art. 25, comma 2, della Costituzione e dell’art. 7 §1 CEDU, nessuno può essere perseguito o condannato per un comportamento che non costituiva reato secondo la legge al momento in cui è stato commesso, né possono essere applicati strumenti probatori non disciplinati dalla legge in vigore.

Nel caso delle prove raccolte tramite SKY ECC:

  • non esiste una normativa nazionale che disciplini la captazione massiva transnazionale criptata;
  • non è prevista alcuna forma di verifica giurisdizionale interna ex ante sui criteri di estrazione e selezione delle chat;
  • le garanzie stabilite per le intercettazioni (artt. 266 ss. c.p.p.) sono eluse mediante l’introduzione surrettizia della prova tramite OEI.

Ciò comporta una prassi probatoria atipica, estranea alla legalità codicistica, e non accessibile o prevedibile per il cittadino: il rischio sistemico, quindi, consiste nel sostituire la legge con consuetudini processuali di matrice investigativa, in violazione dei principi di legalità e prevedibilità del diritto.

Le norme costituzionali sulla libertà personale (art. 13), sul domicilio (art. 14) e sulla segretezza delle comunicazioni (art. 15) impongono che ogni compressione di tali diritti sia autorizzata dal giudice con atto motivato, secondo una legge formale.

Tuttavia:

  • le comunicazioni vengono intercettate e usate senza autorizzazione giudiziaria italiana;
  • il dato criptato è trattato come prova già legittima perché “decrittato altrove”;
  • il giudice nazionale non valuta l’effettiva necessità, proporzionalità e tempestività della misura.

Il rischio è che il ruolo di “custode delle libertà costituzionali” venga svuotato, non caso per caso, ma come prassi generalizzata: ciò istituzionalizza l’assenza di giurisdizione interna, rendendo sistemica una violazione sporadica.

La Corte EDU ha chiarito che l’equità del processo ex art. 6 §1 CEDU va valutata non solo rispetto al singolo caso, ma in termini di funzionalità dell’intero sistema processuale (Khan c. Regno Unito, 2000; Bykov c. Russia, 2009; Beuze c. Belgio, 2018).

Quando prove decisive sono introdotte senza possibilità di contestazione l’intera architettura processuale è aggirata attraverso fonti estere non controllabili; i giudici nazionali si limitano a recepire dati raccolti altrove senza verifica autonoma, e quindi si realizza una violazione sistemica dell’art. 6 CEDU, che compromette la fiducia nella giustizia, in quanto il processo diventa opaco nei metodi, diseguale nei ruoli e deresponsabilizzato nei controlli.

L’art. 117 Cost., come interpretato dalla Corte costituzionale (sentt. nn. 348 e 349 del 2007), impone che le norme interne siano conformi agli obblighi internazionali, tra cui la CEDU.

La prassi italiana descritta:

  • non garantisce il diritto a un ricorso effettivo contro l’utilizzo di dati provenienti da intelligenze estere (violazione art. 13 CEDU);
  • non assicura la difesa effettiva (violazione art. 6 §3 CEDU);
  • non assicura la legalità delle limitazioni ai diritti fondamentali (art. 8 CEDU).

Questa divergenza reiterata produce un conflitto strutturale tra ordinamento interno e sistema convenzionale, che richiede un intervento normativo o costituzionale di ripristino dell’equilibrio.

Il vero rischio non è l’uso sporadico di prove tecnologicamente complesse o provenienti dall’estero, ma la normalizzazione dell’eccezione investigativa come prassi processuale ordinaria. Così si crea un diritto penale del nemico, in cui i principi sono flessibili, la difesa è indebolita, il giudice è esautorato e la cooperazione estera diventa strumento di elusione delle garanzie.

Tutto ciò si pone fuori dal disegno costituzionale italiano e al di sotto degli standard minimi della CEDU, rendendo ogni processo viziato da tali modalità potenzialmente impugnabile anche in sede sovranazionale.

CONCLUSIONE

L’accettazione giurisprudenziale dell’utilizzabilità delle comunicazioni decrittate dalla piattaforma SKY ECC – acquisite da autorità estere, trasmesse mediante Ordine Europeo di Indagine, non soggette ad autorizzazione del giudice italiano e sottratte al controllo effettivo della difesa – segna un punto di svolta pericoloso nel paradigma del processo penale italiano.

Ci troviamo di fronte non ad una “tolleranza” giustificata da esigenze investigative contingenti, ma ad un nuovo modello processuale, informato a logiche di:

  • automatismo probatorio;
  • presunzione di affidabilità transfrontaliera;
  • deresponsabilizzazione del giudice;
  • compressione sistemica delle garanzie difensive.

Un modello che, sotto l’apparente efficienza investigativa, disarticola la funzione costituzionale del processo penale quale strumento di garanzia, e non di sola repressione.

Questo modello, consolidatosi con le sentenze delle Sezioni Unite (Cass. pen., SS.UU., n. 23755/2024), legittima la deroga permanente:

  • alla riserva di legge (artt. 13, 14, 15 Cost.);
  • alla riserva di giurisdizione (artt. 111, 24 Cost.);
  • alla legalità del trattamento dei dati (artt. 8 CEDU e 117 Cost.);

Il risultato è un sistema in cui i presupposti della legalità sono traslati all’esterno del circuito giurisdizionale interno, rendendo il giudice italiano mero ricettore di prove già formate all’estero e sottratte ad ogni vaglio nazionale effettivo.

Il processo penale fondato sui dati SKY ECC determina una pluralità di violazioni della CEDU, interconnesse e strutturali:

  • 6 §1 → Violazione dell’equità del processo: l’imputato non può contestare in modo effettivo l’autenticità, la completezza e l’integrità delle prove;
  • 6 §3 lett. b e d → Violazione del diritto alla preparazione della difesa e all’esame delle prove a carico: l’imputato non ha accesso ai dati grezzi né può esaminare le autorità straniere che li hanno acquisiti e selezionati;
  • 8 → Violazione del diritto alla vita privata e alla segretezza delle comunicazioni, compromesso da captazioni di massa operate da Stati terzi e non autorizzate da un giudice nazionale;
  • 13 → Violazione del diritto a un ricorso effettivo contro l’uso di prove illegittime, in quanto non esiste alcun mezzo interno per verificare o invalidare l’uso dei dati SKY ECC.

Tali violazioni sono aggravate dalla loro natura sistemica, cioè non limitate a casi isolati, ma estese a decine di procedimenti penali che hanno costruito l’intera base accusatoria sulla prova “importata”.

L’adesione acritica della giurisprudenza alla logica della cooperazione giudiziaria automatica rischia di sovvertire il ruolo costituzionale del processo penale, che – secondo l’art. 111 Cost. – è fondato:

  • sulla parità delle armi tra accusa e difesa;
  • sulla verifica piena delle fonti probatorie;
  • sulla funzione attiva del giudice quale garante dell’equilibrio processuale.

In questo scenario, la Costituzione viene aggirata non attraverso una violazione formale, ma mediante un mutamento interpretativo e prassico, che trasforma un processo pubblico, accusatorio, dialettico, in una procedura a struttura inquisitoria digitale, fondata sull’impossibilità di replica della prova tecnica.

Alla luce di quanto esposto, si impone una reazione multilivello:

  • costituzionale, mediante rimessione alla Corte costituzionale del tema dell’utilizzabilità delle prove estere decriptate;
  • legislativa, attraverso l’introduzione di una disciplina ad hoc che imponga limiti, controlli giurisdizionali e strumenti di verifica sulle prove acquisite da fonti esterne;
  • sovranazionale, mediante il ricorso individuale alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, al fine di ottenere una condanna dello Stato italiano per violazione strutturale dell’art. 6 CEDU.

Il vero pericolo non è l’uso della tecnologia o della cooperazione investigativa, ma l’indifferenza verso le garanzie. Il processo penale non è uno strumento di efficienza punitiva: è il luogo dove lo Stato si confronta con i suoi stessi limiti, dove anche il colpevole ha diritto alla verità legale, e non solo fattuale.

L’attuale impostazione giurisprudenziale, fondata sulla presunzione di conformità, sull’inaccessibilità della prova e sull’assenza di controllo giurisdizionale, è incompatibile con lo Stato di diritto, in quanto capovolge il rapporto tra libertà e potere investigativo, e pone le basi per una giustizia cieca, asimmetrica e tecnologicamente opaca.

Questa deriva può e deve essere contrastata, perché in gioco non c’è soltanto la sorte di singoli processi, ma la credibilità stessa del sistema costituzionale di giustizia penale.

 

 

Chiamaci!