Danneggiamento mediante omissione del patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale.

È configurabile il reato di cui all’art. 733 c.p. anche per omissione, potendosi, infatti, questo manifestare anche attraverso un comportamento continuo e prolungato, attivo o inerte, come per esempio il persistente stato di abbandono, tale da lasciare il bene materiale privo di ogni cautela da aggressioni umane (c.d. vandalismo), dai fattori naturali (insetti o agenti atmosferici) o da elementi chimico-fisici (i fattori inquinanti); e ciò, dal momento che l’evento da impedire, ai fini dell’operatività della clausola di equivalenza prevista dall’art. 40 comma 2 c.p., può essere costituito da qualsiasi fatto rispetto al quale possa essere posto il problema della causalità omissiva.

Ai fini della configurabilità di un danneggiamento per omissione ciò che rileva è la fonte del comando, della posizione di garanzia alla base dell’obbligo di agire, che, nella fattispecie di cui all’art. 733 c.p., va individuata negli obblighi di conservazione dei beni culturali imposti (anche) al privato proprietario dall’art. 30 del D.lgs. 42/2004 (“I privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono tenuti a garantirne la conservazione”). Detti obblighi delineano, in capo ai privati proprietari dell’edificio di rilevanza archeologica, una posizione di garanzia generatrice dell’obbligo giuridico di impedire l’evento tipico, ovvero il danneggiamento del rilevante bene archeologico, determinato dalla condotta inerte, e, a tratti, ostruzionistica, posta in essere per impedire agli organi competenti, ed in particolare alla Soprintendenza, l’effettuazione degli urgenti interventi di manutenzione e restauro.

Nella fattispecie di cui all’art. 733 c.p. ricorre il requisito del periculum in mora quando, nelle more del procedimento di acquisizione definitiva del bene da parte della P.A., la disponibilità dello stesso in capo agli indagati, in assenza di qualsivoglia condotta, pur doverosa, di conservazione e restauro, e di cooperazione nella manutenzione del bene, può determinare una situazione di ulteriore aggravamento o protrazione delle conseguenze del reato, atteso che l’immobile di rilevanza storico-artistica e archeologica, in assenza di urgenti interventi di manutenzione e restauro, oltre ad essere sottratto alla fruizione, anche estetica, da parte della collettività, è sottoposto ad un processo di irreversibile degrado

Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Avellino, dott. G.Riccardi, imp. S., ord. 23 novembre 2012.

le prove penali sono utilizzabili nel processo tributario

Cass. civ., Sez. V, 7/2/2013, n. 2916:

… 3.- Il motivo, che presenta aspetti d’inammissibilità per genericità, è comunque infondato.
Quanto al profilo concernente le “sommarie informazioni testimoniali”, va rilevato che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4 stabilisce che nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”.
Nel nostro caso, a sostegno della sentenza impugnata non sono state dedotte prove testimoniali, bensì intercettazioni telefoniche e verbali di “testimonianze raccolte dalla guardia di finanza”.
3.1.- Sul punto, questa Corte ha già stabilito che, in tema di contenzioso tributario, le dichiarazioni di terzi raccolte dalla polizia tributaria ed inserite nel processo verbale di constatazione non hanno natura di testimonianza, bensì di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative, le quali, benchè sfornite, ex se, di dirimente efficacia probatoria, comunque non si pongono in contrasto con il citato comma 4 dell’art. 7 (Cass. 11 marzo 2002, n. 3526).
3.2.- In particolare, si è precisato, la disposizione in questione, in quanto limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica, disciplinati da altre disposizioni, vale soltanto per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, ovverosia della narrazione che, in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo assunto quale teste, acquista un particolare valore probatorio;le dichiarazioni dei terzi raccolte dai verificatori, invece, quand’anche nell’ambito di un procedimento penale, e inserite nel processo verbale di constatazione, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzabili quali elementi di prova (Cass. 30 settembre 2011, n. 20032; Cass. 20 aprile 2007, n. 9402; Cass. 29 luglio 2005, n. 16032; secondo Cass. 5 maggio 2011, n. 9876, in taluni casi le dichiarazioni possono assurgere al rango di presunzioni), anche a favore del contribuente (Cass. 14 maggio 2010, n. 11785).
4.- Quanto, poi, al profilo concernente le intercettazioni telefoniche, questa sezione ha già stabilito che “il divieto, posto dall’art. 270 c.p.p., di utilizzare i risultati di intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quello in cui furono disposte non opera nel contenzioso tributario, ma soltanto in ambito penale, non potendosi arbitrariamente estendere l’efficacia di una norma processuale penale, posta a garanzia dei diritti di difesa in quella sede, a dominii processuali diversi, come quello tributario, muniti di regole proprie” (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4306).
4.1.- Si è al riguardo precisato che la regola propria del diritto tributario, applicabile in materia di IVA, è quella desumibile dal D.P.R. 29 settembre 1972, n. 633, art. 63, a norma del quale la guardia di finanza, cooperando con l’ufficio, trasmette “documenti, dati e notizie acquisiti direttamente o riferiti ed ottenuti dalle altre Forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria”, “previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria” E l’autorizzazione, si è aggiunto, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non già dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, non essendo prevista per filtrare l’acquisizione di elementi significativi a fini fiscali, ma soltanto per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dal segreto (Cass. 5 febbraio 2007, n. 2450).
4.2.- Ciò posto, un atto legittimamente assunto in sede penale – va rimarcato, sul punto, che il ricorrente non dubita di tale legittimità- e trasmesso all’amministrazione tributaria giusta il richiamato art. 63, entra a far parte a pieno titolo del materiale probatorio e indiziario che il giudice tributario di merito deve valutare.
4.3.-Non si frappongono, d’altronde, ostacoli generali all’applicazione di questa regola particolare del diritto tributario.
In dettaglio, non si frappone anzitutto l’inviolabilità del diritto di libertà e di segretezza delle comunicazioni.
Il legittimo espletamento delle intercettazioni, del quale in questo giudizio non si dubita, implica che sia già intervenuto l'”atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge” richiesto dall’art. 15 Cost..
Non si frappone, poi, il diritto di difesa per la circostanza che, a differenza che nel processo penale, nel caso in questione il difensore del contribuente non è chiamato a partecipare alla formazione della prova racchiusa nell’atto trasmesso, in quanto, nel processo tributario, l’atto acquisito non è destinato ad assumere il valore probatorio che ad esso è riconosciuto nel processo penale: il minor tasso di garanzia del diritto al contraddittorio nel procedimento tributario si riverbera sulla minore attendibilità sul piano probatorio dell’atto.
Ma, e soprattutto, non ricorre nei procedimenti diversi da quello penale in seno al quale siano state autorizzate ed espletate le intercettazioni telefoniche, la ratio sottesa al divieto stabilito dall’art. 270 c.p., la quale è volta ad evitare che procedimenti con imputazioni fantasiose possano legittimare il ricorso alle intercettazioni, al fine di propiziarne l’utilizzazione in procedimenti per reati che non avrebbero consentito questo mezzo d’indagine.
5.- In coerenza con questi principi, la Corte, già in altri ambiti, ha riconosciuto l’utilizzabilità delle intercettazioni legittimamente espletate nel processo penale…

la fuga dopo il tamponamento è sempre reato

..in tema di circolazione stradale, l’elemento soggettivo di cui al reato dell’art. 189 c.d.s. ricorre quando l’utente della strada, al verificarsi di un incidente – idoneo a recar danno alle persone e riconducibile al proprio comportamento – ometta di fermarsi per prestare eventuale soccorso, non essendo per contro necessario che il soggetto agente abbia in concreto constatato il danno provocato alla vittima. Ai fini della configurabilità del reato di fuga, quanto all’elemento psicologico, pur essendo richiesto il dolo, la consapevolezza che la persona coinvolta nel’incidente ha bisogno di soccorso può sussistere anche sotto il profilo del dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso l’esistenza..

Cass.pen., 4 febbraio 2013, n. 5510

l’accertamento sintomatico dello stato di ebbrezza

…Secondo l’insegnamento di questa Corte (v., da ultimo, Cass., Sez. 4, n. 6889/2011, Rv. 252728; Cass., Sez. 4, n. 28787/2011, Rv. 250714), “ai fini della configurazione del reato di guida in stato di ebbrezza, lo stato di ebbrezza può essere accertato, per tutte le ipotesi attualmente previste dall’art. 186 c.d.s., con qualsiasi mezzo, e quindi anche su base sintomatico, indipendentemente dall’accertamento strumentale, dovendosi comunque ravvisare l’ipotesi più lieve, priva di rilievo penale, quando, pur risultando accertato il superamento della soglia minimo, non sia possibile affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che la condotta dell’agente rientri nell’ambito di una delle due altre ipotesi, che conservano rilievo penale” (v. altresì Cass., Sez. 4, n. 48026/2009, Rv. 245802; Cass., n. 18486/2009; Cass., Sez. 4, n. 48297/2008, Rv. 242392; Cass., Sez. 4, n. 47378/ 2008, Rv. 242765).
Nel caso di specie, la corte distrettuale ha indicato, a fondamento dell’accertamento della responsabilità dell’imputato, il riscontro dell’alito vinoso dell’imputato, nonché la grave portata dell’incidente, resa evidente dalle conseguenze riscontrate dalle forze dell’ordine intervenute.
Da tali premesse, la corte distrettuale ha concluso che il tasso alcolemico riscontrabile sulla persona dell’imputato fosse molto superiore all’entità di 0,5 g/l, in quanto con un tasso superiore di poco a quella soglia “non si va ad urtare un palo dell’illuminazione pubblica con la propria auto senza una ragione specifica, che, peraltro, non è stata indicata dall’appellante”.
Il ragionamento seguito dal giudice del merito, se appare certamente tale da lasciar ritenere sussistente il ricorso di una non irrilevante condizione di ebbrezza dell’imputato, non appare tuttavia in grado di attestare, oltre ogni ragionevole dubbio, che detta condizione di ebbrezza fosse tale da integrare la (sia pur) più lieve ipotesi criminosa prevista dalla legge (art. 186, comma 2 lettera b), c.d.s., che prevede come penalmente rilevante il riscontro di un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l.
Il livello minimo previsto (0,5 g/l) come penalmente rilevante dall’art. 186 c.d.s. vigente all’epoca del fatto (19.5.2007), è considerato, dall’attuale formulazione del medesimo articolo 186 c.d.s., penalmente irrilevante (cfr. l’art. 186, comma 2 lettera a), c.d.s.), ove non sia stata accertato il raggiungimento di un tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l.
Deve ritenersi, pertanto, che, nel caso di specie, non sia stata raggiunta una prova idonea ad attestare, oltre ogni ragionevole dubbio, che la condotta dell’imputato abbia integrato gli estremi sufficienti a ritenere consumata la più lieve ipotesi criminosa ad oggi prevista per legge.
Ne deriva il conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, non essendo il fatto ascritto all’imputato più previsto dalla legge come reato….

il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore

Cass., Sez.Lav., 10 gennaio 2013, n. 536:

…E’ principio consolido di questa Corte che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (cfr., fra le altre, Cass. 24 marzo 2004 n. 5920; Cass. 8 marzo 2006 n. 4980; Cass. 23 aprile 2009 n. 9689; Cass. 10 settembre 2009 n. 19494; Cass. 25 febbraio 2011 n. 4656).
E’ altresì pacifico che il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell’art. 2087 cod. civ., si atteggia in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti, esaltandosi in presenza di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento, senza che in contrario possa assumere rilievo l’imprudenza dell’infortunato nell’assumere un’iniziativa di collaborazione nel cui ambito l’infortunio si sia verificato (cfr. Cass. 18 maggio 2007 n. 11622; Cass. 24 gennaio 2012 n. 944 e, in precedenza, Cass. 12 gennaio 2002 n. 326; Cass. 2 ottobre 1998 n. 9805).

spetta al Datore di lavoro sia adottare le idonee misure protettive sia vigilare sull’uso da parte del dipendente

….E’ principio consolido di questa Corte che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (cfr., fra le altre, Cass. 24 marzo 2004 n. 5920; Cass. 8 marzo 2006 n. 4980; Cass. 23 aprile 2009 n. 9689; Cass. 10 settembre 2009 n. 19494; Cass. 25 febbraio 2011 n. 4656).

E’ altresì pacifico che il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell’art. 2087 cod. civ., si atteggia in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti, esaltandosi in presenza di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento, senza che in contrario possa assumere rilievo l’imprudenza dell’infortunato nell’assumere un’iniziativa di collaborazione nel cui ambito l’infortunio si sia verificato (cfr. Cass. 18 maggio 2007 n. 11622; Cass. 24 gennaio 2012 n. 944 e, in precedenza, Cass. 12 gennaio 2002 n. 326; Cass. 2 ottobre 1998 n. 9805)…

Cass., Sez. Lavoro, 10 Gennaio 2013, n. 536.

trasferire beni su società controllata è comunque bancarotta per distrazione

… secondo la giurisprudenza di questa Corte, “il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione sussiste anche nel caso di imprese collegate tra loro, qualora gli atti di disposizione patrimoniale, privi di seria contropartita, siano eseguiti a favore di una società del medesimo gruppo, poichè il collegamento societario ha natura meramente economica e non scalfisce il principio di autonomia della singola persona giuridica” (Cass., sez. 5, 1 luglio 2002, Arienti, m. 222387, Cass., sez. 5, 14 dicembre 1999, Tonduti, m. 215668, Cass., sez. 5, 9 marzo 1999, Spinelli, m. 213116, Cass., sez. 5, 17 marzo 1995, Degli Antoni, m. 201318). Si è ritenuto in particolare che “la diversità degli interessi tutelati dalla legge penale fallimentare e dalla nuova disciplina dei reati societari, introdotta dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, impedisce che alla materia fallimentare possa applicarsi la norma prevista dall’art. 2634 c.c., comma 3, secondo cui non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza allo stesso gruppo societario” (Cass., sez. 5, 5 giugno 2003, Longo, m. 227149). Sicchè “integra la distrazione rilevante, ex art. 216 e art. 223, comma 1, legge fallimentare (bancarotta fraudolenta impropria) la condotta di colui che trasferisca, senza alcuna contropartita economica, beni di una società in difficoltà economiche – di cui sia socio ed effettivo gestore – ad altra del medesimo gruppo in analoghe difficoltà, considerato che, in tal caso, nessuna prognosi positiva è possibile e che, pur a seguito dell’introduzione nel vigente ordinamento dell’art. 2634 c.c., comma 3, la presenza di un gruppo societario non legittima per ciò solo qualsivoglia condotta di asservimento di una società all’interesse delle altre società del gruppo, dovendosi, per contro, ritenere che l’autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società imponga all’amministratore di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica società cui sia preposto e, pertanto, di non sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse, ancorchè riconducibile a quello di chi sia collocato al vertice del gruppo, che non procurerebbe alcun effetto a favore dei terzi creditori dell’organismo impoverito” (Cass., sez. 5, 8 novembre 2007, Belleri, m. 239108, Cass., sez. 5, 4 dicembre 2007, Spedicati, m. 238237). Leggi tutto “trasferire beni su società controllata è comunque bancarotta per distrazione”

è estorsione esercitare azioni legali pretestuose !

ad avviso di Cass. pen., Sez. II, Sent., 29/11/2012 dep. 17/12/2012, n. 48733:

…Come è noto, la minaccia necessaria per integrare gli estremi dell’estorsione (o della tentata estorsione) consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà dell’agente. Secondo la previsione normativa, la condotta minacciosa deve causare un doppio evento, ossia la coartazione della volontà della vittima e la disposizione patrimoniale. L’esercizio di un diritto, o la minaccia di esercitarlo – quali indubbiamente sono il concreto esercizio di un’azione giudiziaria o esecutiva o anche la minaccia di tali iniziative – non presentano, di per sè, i caratteri della minaccia necessaria per l’astratta configurabilità del delitto di estorsione: infatti, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio dei propri interessi, le suddette condotte sono esclusivamente dirette alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell’agente. Leggi tutto “è estorsione esercitare azioni legali pretestuose !”

ABUSIVO ESERCIZIO PROFESSIONE DI PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA

Tribunale di Salerno, Sezione distaccata di Cava de’ Tirreni, 19 febbraio 2009, Giud. Riccardi, Imp. Bove

DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DELITTI DEI PRIVATI CONTRO LA P.A. – ABUSIVO ESERCIZIO DI UNA PROFESSIONE – PROFESSIONE DI PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA – ELEMENTO OGGETTIVO DEL REATO – CONDOTTA.

Sussiste il delitto di esercizio abusivo della la professione di psicologo e psicoterapeuta allorquando l’agente non soltanto millanti l’inesistente qualifica ma, altresì, pratichi concretamente l’attività di psicoterapia nei confronti di ignari pazienti. La condotta delittuosa consiste nell’adoperare le tecniche tipiche della psicoterapia – dalle impostazioni più strettamente espressive, dirette all’introspezione ed alla comprensione dell’Io profondo, alle impostazioni più supportive, dirette al sostegno dell’Io cosciente, anche mediante coinvolgimento in attività ricreative –, abusando del proprio ruolo, ed anche della propria esperienza empirica, per praticare attività che sono riservate agli psicologi ed agli psicoterapeuti.

In particolare, ciò che connota l’attività di psicoterapia sono essenzialmente il ‘fine di guarire’, lo scopo terapeutico ed i metodi adoperati, consistenti soprattutto nelle forme del ‘colloquio’; in sostanza, commette il reato di esercizio abusivo della professione medica chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli, ed appresti le cure al malato. Da tale condotta non è esclusa la psicoterapia, giacché la professione in parola è caratterizzata dal fine di guarire e non già dai mezzi scientifici adoperati; e l’attività di dialogo con i propri clienti, volta a chiarire gli eventuali disturbi di natura psicologica ed anche a fornire consigli, svolta da un pranoterapeuta, prima della fase della “seduta” relativa alla pranoterapia, costituisce un’attività di diagnosi e di terapia .

DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DELITTI DEI PRIVATI CONTRO LA P.A. – ABUSIVO ESERCIZIO DI UNA PROFESSIONE – PROFESSIONE DI PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA – ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO – DOLO.

Sussiste il dolo della fattispecie del delitto di esercizio abusivo della professione di psicologo e psicoterapeuta allorquando l’agente abbia conoscenza dei problemi di natura psicologica vissuti dall’ignaro paziente, e, conoscendo (o dovendo conoscere) i confini della sua professione (nel caso di specie assistente sociale) non può ignorare che, nel prendere in cura un paziente con questo genere di problemi, entra inequivocabilmente, e senza possibilità di dubbio anche soggettivo, nel campo riservato agli psicologi.

DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO – DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO COMMESSI MEDIANTE FRODE – TRUFFA – CONDOTTA CONSISTENTE NELLO SPACCIARSI MEDICO ESERCENTE L’ATTIVITÀ DI PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA.

Sussiste il reato di truffa di cui all’art. 640 c.p. allorquando il soggetto agente, nel recarsi al primo incontro presso la famiglia del malato di mente, si accrediti come medico e come psicoterapeuta, esperto in psicoterapia. Tale condotta, che è idonea a trarre in inganno il paziente ed i suoi familiari, ingenera nella vittima un falso affidamento sulle qualità e sulle qualifiche professionali dell’agente ed è ciò che induce la persona offesa a versamenti continui e cospicui di somme di denaro eccessive anche per qualsiasi forma di legittima psicoterapia.

Riferimenti normativi: articolo 348 c.p., articolo 640 c.p., legge 18 febbraio 1989, n. 56.

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