esposizione del lavoratore al rischio di ammalarsi

ad avviso di Cass.civ., 12 luglio 2011, n. 15286

il fatto costitutivo del diritto in questione non si identifica con la mera durata ultradecennale di una attività lavorativa svolta in un luogo di lavoro in cui era presente l’amianto, bensì con l’esposizione del lavoratore al rischio di ammalarsi a causa dell’inspirazione – per oltre un decennio – di fibre di amianto presenti in quel luogo in quantità superiore ai valori limite prescritti dalla normativa di prevenzione del D.Lgs. n. 277 del 1991. Ne consegue che l’accertamento giudiziale della semplice durata di quell’attività, senza accertamento del rischio effettivo e, quindi, senza l’apprezzamento di una esposizione “qualificata”, non costituisce, di per sé, ragione di riconoscimento del diritto al ripetuto beneficio contributivo e, come tale, non è suscettibile di passare in giudicato

post 2011

associazione con finalità di terrorismo o di eversione

ai fini della configurabilità del delitto di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, pur non essendo necessaria la realizzazione di reati oggetto del programma criminoso, essendo sufficiente l’esistenza di un programma, attuale e concreto, diretto alla realizzazione di quelle finalità, occorre tuttavia che ricorra una struttura organizzativa stabile e permanente che, per quanto rudimentale, presenti un grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione del programma,

cfr. Cass. pen., sez. VI, 5 luglio 2011, n. 26151

post 2011

colpa medica

In tema di colpa medica interessanti le argomentazioni di recente proposte dal Tribunale di Pisa (sent. 27.5.2011):

quanto al nesso causale come sarebbe irrazionale pretendere un comportamento comunque inidoneo ad evitare l’evento, altrettanto sarebbe rinunziare a muovere l’addebito colposo nel caso in cui la condotta osservante delle cautele, sebbene non certamente risolutiva, avrebbe diminuito significativamente il rischio di verificazione dell’evento, cioè avrebbe avuto significative probabilità di salvare il bene protetto.

Circa l’elemento soggettivo del reato una volta accertata sul piano oggettivo la violazione della regola cautelare, occorre sul piano soggettivo accertare l’esigibilità del comportamento conforme alla regola cautelare da parte dell’agente che concretamente si trova ad agire (cd. Doppio grado della colpa); in altri termini, il profilo più squisitamente soggettivo e personale della colpa viene generalmente individuato nella capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare, nella concreta possibilità di pretendere l’osservanza della regola stessa, in una parola nella esigibilità del comportamento dovuto.

Misura soggettiva della colpa, dunque, esigibilità del comportamento lecito dall’agente del caso concreto, che va valutata sia con riferimento alla prevedibilità, che con riguardo all’evitabilità del fatto antigiuridico. In particolare, la prevedibilità altro non è che la possibilità dell’uomo coscienzioso ed avveduto (rectius: dell’agente modello) di cogliere che un certo evento è legato alla violazione di un determinato dovere oggettivo di diligenza, che cioè un certo evento è evitabile adottando determinate regole di diligenza; la evitabilità è, invece, l’idoneità della regola cautelare a scongiurare o a ridurre il pericolo che quel determinato fatto antigiuridico si realizzi: entrambi questi parametri vanno valutati in concreto, tenendo conto delle circostanze del caso in cui l’agente si è trovato ad operare

post 2011

delitto di interferenze illecite nell’altrui vita privata

Sulla insussistenza del delitto di interferenze illecite nell’altrui vita privata, la Cassazione – sent. n.25453/2011– ha precisato che:

anche ad ammettere, sia pure con innegabile forzatura linguistica, che l’attivita’ di costruzione di un muro di confine costituisca, davvero, fatto afferente all’imperscrutabile vita privata altrui, la realizzazione del manufatto in prossimita’ di un confine postula il rispetto delle prescrizioni civilistiche, da ciò derivando che un privato cittadino potenzialmente danneggiato da tale comportamento ha innegabile diritto a documentare con ogni mezzo (non esclusa la ripresa fotografica o filmata) l’altrui costruzione.

post 2011

ordinanza cautelare del GIP mancante di motivazione

non è nulla l’ordinanza cautelare del GIP mancante di motivazione, questo afferma Cass. pen., sez. III, 15 aprile 2011, n. 15416, ad avviso della quale:

l’effetto interamente devolutivo che caratterizza il riesame delle ordinanze applicative di misure cautelari, deve ritenersi che il Tribunale del Riesame “possa sanare, con la propria motivazione, le carenze argomentative di detto provvedimento, pur quando esse siano tali da dar luogo alle nullità, rilevabili d’ufficio, previste dall’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e c bis)”.

Del resto, ciò lo si desume con chiarezza anche dalla norma (art. 309 c.p.p., comma 9) che facoltizza il Tribunale a riformare, annullare o confermare “per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso” oltre che dalla costante interpretazione data da questa S.C. (v. anche sez. n. 4.12.06, Biasi, Rv. 235622) che, ricalcando analoghe enunciazioni, asserisce testualmente che “deve ritenersi che il Tribunale del Riesame possa sopperire, con la propria motivazione, non solo all’insufficienza o contraddittorietà della motivazione del provvedimento genetico della misura, ma anche alla sua totale mancanza o mera apparenza, esplicitando, per la prima volte, le ragioni giustificative della misura cautelare adottata”

post 2011

elemento psicologico della diffamazione

in tema di delitti contro l’onore, l’elemento psicologico della diffamazione consiste non solo nella consapevolezza di pronunziare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione ma anche nella volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone ma l’imputato quando aveva parlato del comportamento sessuale disinvolto nel quale si era, a suo dire, imbattuto nelle due sorelle, non aveva menzionato anche il relativo cognome e tantomeno precisato la località del cantiere, da ciò deriva la non identificabilità delle p.p.oo. e, quindi, l’insussistenza del reato; cfr. Cass. pen. n. 25458/2011

post 2011

conflitto di attribuzione

La Corte di cassazione, terza sezione civile, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata dall’Assemblea il 10 febbraio 2005 (doc. IV-quater, n. 48), con la quale è stato affermato che le dichiarazioni rese dal deputato Vittorio Sgarbi nel corso di una trasmissione televisiva andata in onda il 27 marzo 1998 e coinvolgenti, fra gli altri, il dott. Gherardo Colombo, magistrato, all’epoca dei fatti, in servizio presso la Procura della Repubblica di Milano, concernevano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e dovevano, pertanto, ritenersi insindacabili, a norma dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Dopo aver rievocato l’iter del procedimento e le ragioni della domanda risarcitoria formulata dal dott. Colombo nei confronti dell’allora deputato Sgarbi, la Corte ricorrente ha richiamato la ormai consolidata giurisprudenza costituzionale formatasi sul tema della garanzia costituzionale prevista per le dichiarazioni rese extra moenia dei parlamentari, sottolineando, in particolare, come il fulcro di tale garanzia debba essere ravvisato nella necessaria individuazione di un nesso funzionale tra le opinioni manifestate e l’attività parlamentare, secondo quelle caratteristiche di sostanziale corrispondenza di contenuti, tra opinioni espresse e attività parlamentare tipica, più volte poste in luce nelle pronunce di questa Corte. In tale cornice, dunque, la Camera dei deputati avrebbe – a parere della Corte ricorrente – omesso di scrutinare correttamente le opinioni manifestate dal deputato Sgarbi, stante il contesto privatistico in cui le stesse sono state espresse, e l’assenza di collegamento tra il relativo contenuto ed atti parlamentari tipici riferibili allo stesso deputato… \"\"

…Nel merito, il ricorso è fondato, in quanto, a sostegno del nesso funzionale ravvisato nella deliberazione oggetto del conflitto, non è stato dedotto alcun atto parlamentare riferibile personalmente alla attività svolta dall’on. Sgarbi quale deputato, posto che gli atti evocati a tal fine dalla Camera resistente si riferiscono ad altri parlamentari. Nell’esigere questo specifico nesso la giurisprudenza di questa Corte è assolutamente costante (ex plurimis, sentenza n. 304 del 2007). E’ la stessa Camera, d’altra parte, a sollecitare una revisione della giurisprudenza costituzionale, notoriamente consolidata nell’escludere la possibilità di utilizzare, come atti di “copertura” ai fini della insindacabilità, quelli posti in essere da altri componenti della Camera di appartenenza, anche se dello stesso gruppo parlamentare. Auspicio che, peraltro, non può trovare accoglimento, dovendosi qui ribadire che la verifica del nesso funzionale tra le dichiarazioni esterne e quelle rese nell’esercizio delle funzioni parlamentari deve essere effettuata con riferimento alla stessa persona, non potendosi configurare «una sorta di insindacabilità di gruppo» assistita dalla garanzia costituzionale prevista dall’art. 68, primo comma, della Costituzione (tra le tante, sentenza n. 28 del 2008). Il nesso biunivoco che deve correlare l’attività divulgativa all’esercizio delle funzioni parlamentari, non può, infatti, che presupporre l’identità soggettiva in capo al titolare del relativo munus, altrimenti facendo assumere, ad una prerogativa riconosciuta in vista dello svolgimento di una funzione, i connotati tipici di una non consentita immunità soggettiva.

Deve conclusivamente ritenersi che non spettava alla Camera dei deputati affermare che i fatti per i quali è in corso il giudizio civile promosso dal dott. Gherardo Colombo nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi pendente davanti alla Corte di cassazione, terza sezione civile, di cui al ricorso in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Corte cost., 24 giugno 2011, n. 194

post 2011

elementi della calunnia

Per quanto concerne, invero, il delitto di calunnia, deve osservarsi, in via generale, che, perchè si realizzi il dolo di tale reato, è necessario che chi formula la falsa accusa abbia certezza dell’innocenza dell’incolpato. L’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude, quindi, l’elemento soggettivo.
Si è tuttavia precisato (v., per tutte, Sez. 6, 14 marzo 1996, Gardi) che tale esclusione opera solo se il convincimento dell’accusatore si basi su elementi seri e concreti e non su semplici supposizioni. A quest’ultimo riguardo, occorrono però alcuni chiarimenti. Se, invero, l’originaria incertezza sulla colpevolezza dell’accusato riguarda fatti storici concreti, suscettibili di verifica o comunque di corretta rappresentazione nella denuncia, la omissione di tale verifica o rappresentazione determina effettivamente la dolosità  di un’accusa espressa in termini perentori. L’ingiustificata attribuzione di un fatto dubbio come fatto vero presuppone infatti la certezza della sua non attribuibilità  sic et simpliciter all’incolpato. Quando invece l’incertezza riguarda profili soggettivi della condotta posta realmente in essere dall’accusato, da un lato la verifica della loro veridicità  si presenta come assai problematica e, dall’altro, la rappresentazione della incertezza dei medesimi è generalmente insita nella loro natura di elementi frutto di valutazione e non di cognizione. In tal caso, dunque, l’attribuzione dell’illiceità  è dominata da una pregnante inferenza soggettiva, che, nella misura in cui non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata, sarà  inidonea a integrare il dolo tipico della calunnia.

Cass. pen., sez. VI, 9 giugno 2011, n. 23118.

post 2011

’obbligo di traduzione del mandato di arresto Europeo

ad avviso di Cass., sez. VI, 7 giugno 2011, n. 22768:

la statuizione contenuta nella decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, circa l’obbligo di traduzione del mandato di arresto Europeo nella lingua ufficiale dello Stato membro di esecuzione – al pari della previgente disposizione di cui all’art. 23 della Convenzione Europea di estradizione – pone a carico dello Stato istante un onere allo scopo di assicurare la funzionalità ed il celere svolgimento della procedura di consegna, ma non determina di per sè la invalidità del mandato di arresto Europeo e della relativa procedura.
Sul piano interno, la L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 6, comma 7, nel fare propria la citata disposizione della decisione quadro, non prevede infatti specifiche sanzioni nel caso in cui il mandato sia pervenuto non tradotto nella lingua italiana.
Pertanto, se il mancato assolvimento di tale onere giustifica la richiesta di adempimento da parte dello Stato di emissione e può determinare – in caso di totale e persistente assenza della collaborazione sollecitata – l’emissione di una pronuncia che dichiara l’inesistenza delle condizioni per procedere alla consegna, dati i brevi termini d’esecuzione del mandato d’arresto Europeo, ciò non significa che l’autorità giudiziaria italiana sia priva del potere di ricorrere all’ausilio di un interprete (nelle forme previste dal nostro ordinamento) per colmare eventuali omissioni o lacune della traduzione o per ottenere integrazioni e chiarimenti ritenuti utili ai fini della decisione da adottare.
Di talchè il motivato e corretto esercizio di tale potere da parte del giudice non determina la dedotta violazione della legge processuale. Nè a maggior ragione può ritenersi viziata la motivazione della sentenza impugnata che si è conformata al predetto principio.

post 2011

D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11

Cass. pen., sez. III, 15.6.2011, n. 23986:

Secondo il chiaro tenore del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, commette il reato colui che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e relativi interessi e sanzioni, aliena simulatamente i propri beni o compie altri atti fraudolenti idonei a frustrare l’efficacia della riscossione coatta. Elementi costitutivi della fattispecie sono, sotto il profilo psicologico, il dolo specifico, cioè, il fine di sottrarsi al pagamento del proprio debito tributario; sotto l’aspetto materiale, necessita il compimento di una azione fraudolenta atta a vanificare l’esito della esecuzione tributaria coattiva (che non deve necessariamente essere in atto e si configura come una evenienza futura cha la condotta mira e neutralizzare). La struttura del reato si presenta differente da quella del d.P.R. n. 602 del 1972, art. 97, comma 6, (sostituita dalla L. n. 413 del 1991, art. 15, abrogata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 25) che richiedeva il compimento, dopo la verifica fiscale, di atti fraudolenti che riuscivano a rendere inefficace, totalmente o parzialmente, l’esecuzione esattoriale. Mettendo a confronto le due fattispecie, si evidenzia, tra l’altro,che la vigente non richiede più la vanificazione della pretesa tributaria. Nel nuovo reato dell’art.11, l’evento materiale si trasforma da danno in pericolo essendo sufficiente la idoneità della condotta a raggiungere il fine illecito che il contribuente si prefigura; in tale modo, il Legislatore ha anticipato la tutela penale del bene protetto non limitandolo alla effettiva riscossione dei tributi, ma anche alla conservazione delle garanzie patrimoniale ad essa connesse (Sez. 3 sentenza 14720/2008). Dal testo della norma, si evince che gli atti fraudolenti non devono essere tali da rendere impossibile il pagamento del debito tributario, ma devono avere la potenzialità di raggiungere tale fine. Da quanto rilevato, deriva che il momento di consumazione del delitto deve essere fissato al compimento di qualsiasi atto che possa mettere in pericolo l’adempimento di una obbligazione tributaria. Venendo al caso in esame, si deve rilevare come la fraudolenta costituzione di un fondo patrimoniale sia condotta idonea ad ostacolare il soddisfacimento della pretesa fiscale (Cass. sezione 3 sentenza 582482008). Sul punto, è esatta la deduzione del ricorrente secondo il quale il fondo patrimoniale di cui all’art. 167 c.c., è soggetto alla disposizione dell’art. 162 c.c., circa le forme delle convenzioni matrimoniali,ivi inclusa quella del quarto comma che ne condiziona la opponibilità ai terzi alla annotazione del relativo contratto ai margini dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione ai sensi dell’art. 2647 c.c., è degradata a mera pubblicità – notizia (Sezioni Unite civili 21658/2001).

post 2011

Chiama lo Studio!